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Il Giappone non è dietro l’angolo, per arrivarci sono stati necessari: 6 ore di volo da Catania a Dubai, 10 ore da Dubai a Tokyo, più il tempo di attesa nello scalo intermedio; il cambio di 7 fusi orari (2 per gli Emirati, più altri 5 per il Giappone). Ma la fatica è stata ripagata dalla riuscita del  viaggio.

Gli aspetti del Giappone che più mi hanno colpito sono: la modernità dei grattacieli di Tokyo, le antichità dei templi di Kyoto e Nara e… i Giapponesi. Sì, perché a differenza di tanti altri viaggi, in questo mi è venuta la curiosità di capire qualcosa delle caratteristiche di questo popolo.

Evidentemente con 10 giorni di tour (di cui 8 effettivi), sarebbe assurdo presumere di aver capito quale sia l’identità di un popolo complesso quale è il Giapponese. Perciò quelle che seguono sono soltanto le mie impressioni estemporanee e soggettive, sicuramente esposte al rischio di scadere in stereotipi e luoghi comuni.

Nel nostro tour abbiamo percorso l’isola di Honshu da Tokyo a Osaka; a parte le Alpi giapponesi, caratterizzate da un paesaggio tipicamente alpino (non per nulla le hanno chiamate “Alpi”), tutte le zone abitabili sono densamente urbanizzate. I centri abitati che si succedono (con popolazione spesso superiore al milione) hanno l’aspetto delle nostre città occidentali.

Le uniche abitazioni, che hanno conservato le tipiche caratteristiche della tradizione giapponese, sono adibite a negozi di souvenir e utilizzate come attrazioni turistiche. Nel passato possono aver  ospitato contadini, geishe, samurai, o non so chi altro, ma oggi si somigliano tutte, perciò si confondono nella memoria.

Invece non dimenticherò facilmente il modo di servire i pasti nei ristoranti giapponesi, che può essere sintetizzato nello slogan “non tutto ma di tutto”. Spesso i piatti sono divisi in tanti piccoli scomparti, perché non sono destinati ad un’unica pietanza, ma a tante piccole porzioni di cibi diversi. Se uno ordina, ad esempio, il sushi, il pesce crudo occupa solo uno di quei piccoli quadratini. A noi – eravamo in quattro – è capitato, in un ristorante rinomato per il pollo arrosto, di ordinare la specialità della casa: “chicken for four”; ci aspettavamo un quarto di pollo a testa: hanno portato una ciotolina con 12 pezzettini di pollo delle dimensioni adatte ad essere prese con i bastoncini, che fanno tre pezzetti pro capite, senza i soliti annessi e connessi. Meno male che eravamo sazi per l’abbondante colazione.

TOKYO

Tokyo non è una città, ma un insieme di città senza un unico centro. Dall’alto del palazzo del Governo metropolitano abbiano visto spuntare i grattacieli da tutte le parti. Abbiamo visitato la zona finanziaria, il quartiere del lusso di Ginza, e quelli tradizionali; un tempio buddista e uno scintoista, e giardini ben curati che, circondati (o forse assediati) dai grattacieli, sembrano oasi di pace in mezzo alla frenesia della vita circostante. Hanno edificato su un’isola artificiale il quartiere di Odaiba, dove fanno bella mostra di sé due statue che, secondo me, rappresentano simbolicamente due aspetti fondamentali del Giappone attuale. Davanti ad un ponte che potrebbe richiamare quello di Brooklyn, si erge la Statua della Libertà;

davanti al palazzo di un’emittente televisiva troneggia la statua di Gundam, un classico personaggio dei cartoni animati di fantascienza, creato dai Giapponesi. L’una rappresenta l’influenza del modello americano, l’altra la creatività nipponica, che si è affermata nella cultura di massa globale con i fumetti e i film d’animazione.

Quello che più mi ha colpito di Tokyo è il fiume di gente che abbiamo incontrato in una stazione del treno ad alta velocità e che procedeva inquadrata, come un esercito in marcia, tutti alla stessa velocità e nella stessa direzione (guai a fermarsi, o a tentare di tornare indietro). Analogo fenomeno, ugualmente impressionante, si verifica continuamente a Shibuya Crossing,  un incrocio dove, allo spuntare del verde dei semafori, scatta una massa enorme di persone che, con andatura sostenuta, si sparpagliano in tutte le direzioni. All’angolo di questo incrocio c’è la statua del cane che ogni giorno, alla stessa ora, continuò ad accucciarsi davanti alla stazione per aspettare il padrone, ignaro della sua morte, e che è diventato universalmente famoso, grazie ad un film con Richard Gere.

Una tale concentrazione di persone si spiega col fatto che il Giappone, con 127 milioni di abitanti, ha un’alta densità di popolazione: 336 ab./Kmq. Ma questo dato non rende l’idea effettiva di tale concentrazione: il 50% di abitanti vive nel 6% del territorio che va da Tokyo a Fukuoka; Tokyo ha 12 milioni di abitanti e la sua area metropolitana ne conta 35 milioni. A Shizuoka, oltre ad un santuario scintoista, abbiamo ammirato il Fujama, il cui cono sommitale spuntava sopra una fascia di nuvole. L’immagine è stata tanto più suggestiva, perché il punto di osservazione era in uno spiazzo verde, che trasmetteva un’insolita sensazione di serenità, in confronto alla tensione da sovrappopolazione di Tokyo.

KYOTO e NARA

I templi che più restano impressi nella memoria sono quelli di Kyoto e Nara.

Kyoto, capitale culturale del Giappone, essendo stata a lungo capitale prima di Tokyo, conserva numerosi templi, giardini e palazzi; altrettanto ricca di templi è Nara, tanto che ambedue sono annoverate fra le città d’arte.

Sono molto suggestivi: il tempio buddista del padiglione d’oro, che si specchia in modo incantevole in un laghetto; il tempio buddista dei mille più uno Buddha d’oro, in cui sono allineate mille statue dorate di Buddha ad altezza d’uomo, che differiscono fra di loro per il solo viso, con al centro una statua più alta della stessa divinità; il tempio con una statua gigantesca di Buddha; il santuario scintoista con una galleria di porte sacre lunga due chilometri.

Molto interessante è anche la residenza dello shogun, che è un eccellente esemplare della casa tradizionale giapponese, con le pareti sottili e le porte scorrevoli. Nelle varie stanze di ricevimento le pareti sono decorate con immagini di tigri, se gli ospiti erano nemici, o di alberi e verde se amici. Se si considera che le stanze con tigri sono numerose e il pavimento è stato congegnato in modo che al passaggio di una persona scricchioli, per segnalare l’eventuale presenza di spie, si deduce che lo shogun, oltre ad essere molto sospettoso, doveva avere molti nemici.

I GIAPPONESI

Farò un sommario excursus sulla storia del Giappone, con l’obiettivo di rilevare in essa l’origine di alcuni aspetti dell’identità del popolo nipponico.

Una riflessione sulle caratteristiche del popolo giapponese, a mio parere, non può prescindere dalla sua insularità. Il Giappone è un arcipelago con quattro isole maggiori e una miriade di altre minori; mentre il mare non ha isolato altre isole, come la Sicilia, posta al centro di quel Mediterraneo, che è stato la culla della civiltà (occidentale), il Giappone ha unito all’insularità una posizione decentrata, lontana dalle correnti asiatiche di traffici e migrazioni, perciò nel corso della sua storia è rimasto isolato e non ha subito invasioni, né mescolamenti di popoli. Sono stati gli stessi Giapponesi a decidere autonomamente quando e se aprirsi all’esterno e che cosa acquisire dagli altri popoli. Essi hanno selezionato quelle conoscenze che era necessario apprendere dagli altri per poter progredire, ma le hanno adattate alle loro tradizioni, rimanendo un popolo monoculturale. È quello che avvenne nel VII secolo d.C. quando, avendo sentito il bisogno di civilizzarsi, mutuarono dalla Cina, ricca già allora di una civiltà millenaria, l’ordinamento, il Buddismo e la scrittura, adattandoli alle loro esigenze. Utilizzarono gli ideogrammi cinesi per una scrittura di tipo fonetico e affiancarono al Buddismo la loro religione originaria, lo Shintoismo. Invece di scannarsi in guerre di religione, ognuno di essi aderì ad entrambe le confessioni, utilizzando lo Shintoismo per risolvere i problemi in vita e il Buddismo quelli dopo la morte. Questo sincretismo religioso dura tuttora, ma ho l’impressione che il culto più sentito sia quello per gli antenati.

Dallo Shintoismo i Giapponesi trassero la credenza che l’imperatore discendesse direttamente dalla Divinità (credenza a cui hanno rinunciato solo dopo la II guerra mondiale, su pressione degli Americani). Nonostante ciò, per una lunga fase della loro storia, detta era medievale, a somiglianza del nostro medioevo, gli shogun, corrispondenti ai nostri feudatari, invece di assicurare fedeltà al “divino” imperatore, gli riconoscevano un potere solo formale e si facevano la guerra fra loro, creando tanti potentati indipendenti, a mo’ di tante isole di un arcipelago. I tanto mitizzati samurai in realtà costituivano milizie private che dovevano fedeltà assoluta al loro shogun.

Questa frammentazione fu superata nel XVI secolo, quando la comparsa di navi europee, cariche di esploratori – mercanti – missionari – aspiranti colonizzatori, suscitò nei Giapponesi il timore di essere colonizzati e di essere infettati da quello che ritenevano un germe estraneo: il Cristianesimo. Questo timore li indusse a unificare il paese, chiudersi ai rapporti con l’esterno, instaurare un potere autocratico, che imponeva la rigida osservanza delle leggi. Questo periodo, durato fino al XIX secolo, ha plasmato la mentalità dei Giapponesi, grazie anche all’introduzione dalla Cina dell’etica confuciana. Il Confucianesimo prescrive l’osservanza delle norme, il rispetto e l’obbedienza per l’autorità, l’accettazione del proprio status sociale, la subordinazione dell’individuo alla comunità e, da parte dell’autorità, la cura e un trattamento benevolo nei confronti dei subordinati. Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento si apre la fase del Giappone moderno: per recuperare il ritardo accumulato, i Giapponesi riaprono le frontiere all’influenza dei paesi più avanzati, cioè all’Occidente, con l’obiettivo di acquisire le conoscenze di cui hanno bisogno, attenendosi al principio “uguaglia e supera”. Viene così attuata l’occidentalizzazione del paese, che rappresenta per il visitatore la nota prevalente

 Anche in questo caso, però, i Giapponesi non hanno rinunciato ai soliti adattamenti: dell’Occidente hanno preso a piene mani la tecnologia, ma hanno rifiutato l’individualismo, preferendo mantenere il comunitarismo proprio dell’etica confuciana.

I Giapponesi sono diventati una grande potenza imperialistica: hanno conquistato i paesi vicini, si sono alleati con la Germania nazista e l’Italia fascista, come i Tedeschi si sono proclamati razza pura e superiore, hanno compiuto stragi nei territori occupati. In poche parole hanno provocato e subito i ben noti disastri della Seconda guerra mondiale. Dopo che il loro territorio è stato raso al suolo dai bombardamenti (compreso quelli nucleari) da parte degli Americani, sono stati dagli stessi aiutati a risollevarsi, in funzione di argine ai vicini paesi comunisti.

Oggi il Giappone è una delle maggiori potenze industriali e fa parte a tutti gli effetti del blocco occidentale, ma ha una sua particolare identità, le cui radici ho cercato di rintracciare nel passato qui brevemente accennato. A mio parere sul capo dei Giapponesi gravano i seguenti imperativi: rigida osservanza delle norme, efficienza e massimo rendimento, ritenere la comunità giudice supremo, conformismo, assunzione delle proprie responsabilità senza deroghe, colpevolizzazione in caso di fallimento o di comportamenti disdicevoli.

Forse la comunità a cui dedicano tutte le proprie energie non è quella nazionale, ma, come avveniva con gli shogun, è la ditta per cui lavorano e il clan familiare. Il che non deve sorprendere, se si considera che dalla ditta dipende parte della pensione e dal guadagno la possibilità di pagarsi la sanità che è privata, la casa molto cara, ecc.. Le città sono pulite e ordinate, il traffico è regolare (forse perché possono comprare l’auto solo se hanno il relativo garage e perché i parcheggi in città sono costosi); i mezzi pubblici sono efficienti, ma affollati. Sembra, però, che tutti siano inquadrati e sottoposti a ritmi logoranti. Sono molto efficienti, ma danno l’impressione che rischiano di andare in tilt quando qualcosa devia dal corso preventivato. Gli imperativi sopra elencati e i ritmi frenetici provocano stress e ansia da prestazione, da ciò l’alta percentuale di suicidi registrata dalle statistiche.

Quanto poi i suddetti imperativi morali, quanto il comunitarismo confuciano, quanto la mentalità tradizionale sussistano nelle nuove generazioni e quanto invece siano sostituiti dall’individualismo e dall’etica della globalizzazione, non sono naturalmente in grado di stabilirlo.

Per quanto mi riguarda, posso dire che, mentre mi trovavo in mezzo alla marea di gente inquadrata e in frenetico movimento a Tokyo, provavo nostalgia per i ritmi rilassati e la discrezionalità nell’interpretazione delle norme di noi Siciliani, ma quando siamo rientrati a Catania, ho percepito con maggiore fastidio del solito la sporcizia e il disordine delle nostre città e le tendenze anarcoidi dei relativi abitanti.

Il viaggio è andato bene, non abbiamo subito intoppi, né imprevisti sgradevoli, grazie all’impegno e alla bravura di Machì, la guida giapponese, degli organizzatori Maria Grazia e Marco e al contributo di Roberto che, pur usufruendo delle ferie della Ciceronetour, ha dato una mano (si vede che ha provato la sindrome da astinenza dei Giapponesi quando non lavorano e si è nipponizzato).

Era facile perdere qualcuno in mezzo alla folla nipponica, o nelle stazioni, dove bisognava scattare come velocisti per non perdere il treno veloce, o per non restarci sopra alla fermata; invece siamo stati riportati tutti a casa stanchi, ma soddisfatti.

La guida si è soffermata nella descrizione dei vari siti visitati e su vari aspetti di vita quotidiana, mostrava di avere le idee chiare sulle varie azioni da compiere, ma non ha fornito un quadro generale sulla storia del Giappone e sulle sue creazioni artistiche.

Il gruppo ha collaborato, non ha avuto tensioni interne, ma non c’è stato il tempo per un’adeguata conoscenza fra Palermitani e Alcamesi: spero che ci siano altre occasioni per viaggiare insieme e conoscersi meglio.

 

Alcamo 3/10/2019                                                                                      Stefano Milotta